Ecco l’invasione degli ultracibi


Bistecche sintetiche, maionese senza uova, spaghetti in 3D, latte iperproteico. Le biotecnologie rivoluzionano l’alimentazione. 

Grande come una pallina da ping pong, la “ wikipearl ” si scioglie in bocca a contatto con la saliva.

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Il guscio è commestibile e racchiude yogurt, formaggio, oppure gelato. Zero packaging, impatto ambientale quasi nullo: sugli scaffali dei supermercati bio Whole Foods, negli Stati Uniti, una confezione da due “conchiglie” costa quattro dollari.

È l’ultima invenzione di WikiFoods, la startup di Cambridge fondata da David Edwards, un biologo che insegna a Harvard. La pallina ecosostenibile non cambierà le sorti dell’umanità, ma per il newsmagazine americano “Time” è una delle 25 invenzioni più importanti del 2014: il segno che, d’ora in poi, il mondo del cibo non sarà più come lo abbiamo conosciuto finora.

La biotecnologia, infatti, sta rivoluzionando lo scenario dei prodotti alimentari, nei Paesi avanzati e in quelli emergenti.

Nel settore degli ogm, ma soprattutto in quello dei cibi naturali, accettati con maggior favore dall’opinione pubblica. Le industrie agroalimentari e i “food lab” delle startup sfornano novità a getto continuo: bistecche sintetiche ricavate da cellule staminali bovine, maionese senza uova, hamburger vegetali al gusto di carne per vegani e vegetariani, spaghetti stampati in 3D. 

Hamburger vegetali, uova ricavate dalle piante, bistecche fatte con cellule staminali dei bovini, formaggio dal latte di cammella, pomodori coltivati in acqua con impianti idroponici domestici. “Impossible foods”  diventano realtà e trovano spazio sugli scaffali dei supermercati. 

E ancora, diavolerie come Fairlife, il “superlatte” che Coca Cola si prepara a lanciare: contiene il 50 per cento di proteine in più, il trenta per cento degli zuccheri in meno, molto calcio e zero lattosio.

Con la diffusione di allergie, intolleranze alimentari e celiachia, inoltre, già da tempo è esploso – anche in Italia – il mercato degli integratori alimentari e dei cibi “gluten-free”. In un contesto del genere, in cui il marketing ha un ruolo preponderante, ha un sapore romantico il libro “In difesa del cibo” (Adelphi editore), in cui Michael Pollan spara a zero contro gli eccessi del nutrizionismo e invita tutti a «non mangiare nulla che la vostra bisnonna non riconoscerebbe come cibo».

A TAVOLA IN NOVE MILIARDI

Se l’invasione degli “ultracibi” è già cominciata, cosa mangeremo nel 2050? La domanda è d’obbligo, visto che in quella data la popolazione mondiale raggiungerà quota nove miliardi e cento milioni, un bel balzo rispetto ai sette miliardi di oggi. Ed è una questione di stretta attualità alla vigilia di Expo 2015, a Milano, il cui tema è “Nutrire il pianeta-energia per la vita”. Nei prossimi decenni la crescita demografica sarà concentrata nei Paesi emergenti e nelle grandi città. Risultato: secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), la produzione alimentare per nutrire tutti dovrà aumentare del 70 per cento, spinta soprattutto dai consumi delle cinque nazioni in cui la classe media diventerà più ricca: Cina, India, Indonesia, Nigeria, Pakistan. 

Da 2.800 calorie consumate al giorno, le stime dicono che nel 2050 si passerà a 3.500. Con le dovute differenze, lo scenario evoca il film di fantascienza “Interstellar” di Christopher Nolan, in cui un gruppo di astronauti abbandona la Terra, priva di cibo a causa dei cambiamenti climatici. E parte alla scoperta di nuove risorse.


QUINOA E AMARANTO NEL PIATTO

Da questi numeri parte “Food, il futuro del cibo”, la grande mostra di National Geographic (fino al primo marzo 2015 al Palazzo delle Esposizioni a Roma) che racconta l’alimentazione in tutti i suoi aspetti.

Oltre 90 immagini dei fotografi di NatGeo per rispondere alla domanda: come sfamare in maniera sostenibile un pianeta sempre più affollato? Una cosa è certa: per produrre di più e a costi accessibili, occorre mettere in campo soluzioni inedite. Orti urbani, piccole serre domestiche per la coltivazione idroponica (in acqua) di frutta e verdura, integratori alimentari naturali creati in laboratorio.

Uno studio Fao, che ha fatto molto discutere, suggerisce di guardare agli insetti che abitano nelle foreste, già oggi nella dieta di due miliardi di persone: coleotteri, bruchi, vespe, formiche, cavallette e grilli, ricchi di proteine e grassi buoni, calcio, ferro e zinco. «C’è bisogno di nuovi cibi, ma serve soprattutto incrementare la produttività delle terre coltivate, che nei prossimi anni tenderanno a diminuire per effetto della pressione demografica e dei cambiamenti climatici», sintetizza Francesco Bonomi, docente di Biochimica all’università di Milano, uno dei professori del team del professor Gian Vincenzo Zuccotti, che collabora con Expo 2015 su incarico del rettore dell’ateneo.

Da esperto biochimico, il professor Bonomi ha ben presente il tema dell’innovazione tecnologica. Ma per affrontare il problema suggerisce di partire dagli sprechi. «È uno dei temi cruciali, ma non riguarda solo il cibo buttato nella spazzatura. Molte derrate alimentari, infatti, restano nei campi; altre vengono danneggiate da parassiti o altri agenti patogeni».

Molte risorse alimentari, tuttavia, sono più vicine di quanto sembri. «Innovare significa anzitutto attingere a materie prime finora sottoutilizzate. E aprire in Occidente nuovi mercati per i Paesi emergenti. Fino a dieci anni fa chi aveva mai sentito parlare di quinoa e amaranto?», continua Bonomi.

La quinoa, alimento base delle antiche civiltà delle Ande in Sudamerica, è coltivata soprattutto in Perù e in Bolivia. Non è un cereale, ma è spesso definita uno pseudocereale per via del suo aspetto, simile a un chicco di grano. In Italia è nota a un pubblico più ampio e crescente: priva di glutine e ricca di proteine, viene spesso utilizzata da vegetariani e vegani.

E appartiene alla stessa famiglia dell’amaranto, pianta color rosso utilizzata da migliaia di anni in Centro e in Sud America. È lungo l’elenco delle piante potenzialmente appetibili: la perilla, pianta aromatica della famiglia della menta; diverse specie di riso dell’Africa sudoccidentale; la stevia, originaria dell’Uruguay, uno dei più potenti dolcificanti al mondo; i semi di chia, coltivati già dagli Aztechi in epoca precolombiana, ricchi di acidi grassi omega 3. 

Alcuni spunti interessanti vengono dalla mostra “Food – La scienza dai semi al piatto” a cura di Dario Bressanini e Beatrice Mattino: un percorso avvincente tra immagini al microscopio, video didattici e giochi interattivi, alla scoperta di semi che escono per la prima volta dalle più importanti banche dei semi italiane. «La biodiversità è un concetto da applicare su scala planetaria, non in chiave autoreferenziale», avverte Bonomi: «Non si tratta di tutelare il cardo gobbo e il lardo di colonnata, ma di aprire nuovi mercati a prodotti che provengono da altre aree del mondo. Sul piano dell’innovazione l’Italia sconta un ritardo culturale e industriale impressionante. Siamo bravi a difendere ciò che abbiamo, ma non sono convinto che questa sia una buona strategia in un pianeta sempre più globalizzato».

SILICON VALLEY 2.0

Nel frattempo, gli investitori privati hanno fiutato l’affare e puntano sulle startup “food tech”, le giovani fucine dove nascono i cibi del futuro. Nel primo semestre 2014, le società del settore “food and beverages” hanno raccolto nel mondo un miliardo e cento milioni di dollari, secondo l’istituto di ricerca Dow Jones VentureSource.

L’anno scorso, il settore aveva attirato 1,59 miliardi di dollari, in crescita del 39 per cento rispetto al 2012. Se gli Stati Uniti – e la Silicon Valley – fanno la parte del leone con 678 milioni di dollari, gli altri non stanno a guardare. In Cina, ad esempio, nel 2013 gli investimenti privati nelle startup del settore ammontavano a oltre 484 milioni, a 129 in India, a 93 in Germania.

E in Italia? Negli ultimi tempi le iniziative si moltiplicano: Alimenta2Talent è un concorso per idee di impresa, promosso dal Comune di Milano e dal Parco Tecnologico Padano di Lodi, che premia e finanzia le migliori idee per cambiare il modo di fare agricoltura. Cinque i progetti premiati a novembre su 100 pervenuti: dalle colture acquaponiche agli aerogel, dal “pasto confezionato” per le intolleranze alimentari alla piattaforma di e-commerce per vendere i cibi in scadenza.

NASCE IL MASTER IN FOOD INNOVATION

Inoltre, il Future Food Institute di Bologna ha appena lanciato il primo master in Food Innovation, insieme all’università di Reggio Emilia e all’Institute for the future di Palo Alto, in California. Dedicato a studenti italiani e stranieri, durerà otto mesi , tra lezioni teoriche e laboratori a cura di docenti provenienti da tutto il mondo, tra cui Caleb Harper, fondatore del progetto MITCityFarm dedicato all’alimentazione di domani. La seconda fase del master, invece, consisterà in un “maker space” in cui verranno creati prototipi innovativi di prodotti e servizi. E durante l’Expo studenti, cittadini e imprese saranno coinvolti in “hackaton”: maratone di cervelli sulle sfide che attendono l’umanità. Nel consiglio scientifico del master c’è anche l’imprenditrice bolognese Sara Roversi, che nel 2008 fondò insieme a Andrea Magelli You Can Group, incubatore di imprese nel campo del cibo, da cui è nato il Future Food Institute. È lei l’anima delle “hackaton”. «Il mondo delle startup è in grande fermento, non solo negli Stati Uniti. C’è chi fa ricerca in laboratorio, producendo magari spirulina, una microalga che può integrare altri prodotti come pane e pasta. E chi studia sul campo, cercando materie prime alternative. Ma c’è un filo rosso che unisce tutti: l’attenzione alla sostenibilità nel modo di produrre, impacchettare, risparmiare energia, ridurre gli sprechi».

Ogni volta che facciamo la spesa, dunque, compiamo una scelta etica. Del resto, come recita l’aforisma più famoso dello scrittore americano Wendell Berry, ampiamente citato da Slow Food: «Mangiare è un atto agricolo». 

Fonte "L'Espresso"

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