Le bugie storiche (che tutti credono vere)


Guglielmo Tell colpì la mela

Intorno alla figura del celebre eroe svizzero, si sono cimentati per secoli gli storici, ma la conclusione è che si tratti di una leggenda. Non esistono infatti prove sulla sua storicità. Secondo la leggenda, Guglielmo Tell, un contadino del cantone di Uri, reo di non aver salutato un’insegna degli austriaci invasori, è costretto a colpire una mela posta sul capo del figlio: Tell, il miglior tiratore della valle, non fallisce, ma viene arrestato quando rivela che, nel caso avesse fallito, avrebbe ucciso il governatore. Tell però fugge e uccide il governatore in un’imboscata.

La leggenda non è altro che la variante svizzera di un racconto popolare noto come “tiro della mela”, diffuso anche tra danesi, norvegesi, islandesi e inglesi. Il mito, però, servì agli elvetici per difendere la propria indipendenza dagli Asburgo, che contestavano la legittimità della prima Confederazione Svizzera del 1° agosto 1291.

Le piramidi le costruirono gli schiavi

È uno dei luoghi comuni sull’Antico Egitto più duri a morire: frotte di schiavi che sotto colpi di frusta spingono i pesanti blocchi delle piramidi. E invece le tombe dei faraoni furono edificate da operai salariati.

La conferma viene dagli scavi archeologici nella piana di Giza, che hanno portato alla luce le tombe dei manovali che 4.500 anni fa parteciparono alla costruzione delle piramidi di Cheope e Chefren: erano egizi e non schiavi (che in Egitto erano soltanto prigionieri di guerra stranieri).

I grandi progetti di interesse nazionale, piramidi ma anche dighe, erano affidati alla popolazione locale, tenuta a un periodo di lavoro obbligatorio in occasione delle piene del Nilo, quando i campi non erano coltivabili.

Lavorare per l’ultima dimora del faraone garantiva un ottimo vitto: le famiglie più ricche inviavano ogni giorno 21 vitelli e 23 montoni ai cantieri, in cambio di sgravi fiscali.

Poteva però capitare che vettovaglie o salari arrivassero in ritardo. Allora gli operai si “coricavano”, secondo l’espressione egizia, ovvero scioperavano. Secondo le testimonianze che ci sono pervenute accadde varie volte: una delle più importanti descrizioni è in un papiro conservato al Museo Egizio di Torino, che riporta le proteste avvenute nel 29° anno di regno di Ramses III (intorno al 1180 a. C.). Si tratta di un’epoca successiva alla costruzione delle piramidi, durante la quale, però, gli operai addetti alle tombe monumentali (per esempio nella Valle dei Re) avevano a disposizione villaggi dove vivere comodamente, con tanto di scuole.

Come nacque allora la credenza? La colpa fu degli storici greci, che non riuscivano a immaginare la costruzione di quegli edifici senza l’impiego di masse di schiavi. Ma anche della Bibbia, dove si dice che la schiavitù era diffusa in Egitto.

Leonardo è il padre della bicicletta

Questa diffusa credenza deriva dal fatto che su una pagina del Codice Atlantico compare il disegno di una bicicletta con tanto di pedali e catena. In realtà la maggior parte degli studiosi concorda sul fatto che il disegno non appartiene alla mano del Maestro, né a quella di un suo allievo (si disse per esempio che potesse essere opera di Gian Giacomo Caprotti, detto Salaì). L’ipotesi più probabile è che sia stato aggiunto nell’800, quando la bicicletta era appena stata inventata, o dopo.

Il Codice Atlantico, in effetti, nacque nel Tardo ’500 da un assemblaggio arbitrario da parte dello scultore Pompeo Leoni, che aveva acquistato i codici originari da Francesco Melzi (allievo di Leonardo) e che li aveva riorganizzati. Altri rimaneggiamenti si ebbero nei secoli successivi.

Cesare morendo – il 15 marzo 44 a.C. – disse “Tu quoque, Brute, fili mi”

Di sicuro non disse quelle parole. Lo scrittore latino Svetonio (70-126) riferisce che morendo Cesare disse in greco “Kai su teknòn” (“Anche tu figlio”), perché quella era la lingua dell’élite romana. Ma questa versione dei fatti è messa in dubbio dallo stesso Svetonio, secondo il quale Cesare, in quel fatidico giorno delle idi di marzo (il 15 marzo) del 44 a. C., emise solo un gemito e non disse alcuna parola.

La frase (tradotta in seguito in latino con l’aggiunta del nome di Bruto) ebbe però fortuna: oltre allo sgomento di Cesare nel vedere Marco Giunio Bruto, suo pupillo, tra i congiurati, esprime il dramma universale del tradimento

I feudatari godevano dello ius primae noctis

Il “diritto della prima notte” è passato alla Storia come il diritto del feudatario di trascorrere con le mogli dei suoi servi della gleba la prima notte di nozze. In realtà si trattava di una tassa (in denaro, non in natura) chiesta dal signore in cambio del suo assenso al matrimonio.

Il mito moderno relativo all’epoca medioevale si sviluppò a partire dall’Illuminismo, che ebbe una propensione a denigrare il Medioevo.

Edison inventò la lampadina

 Alla lampadina a incandescenza di solito si associa il nome dell’inventore americano T omas Alva Edison (1847- 1931). Ma c’è un altro “papà”, oggi dimenticato: il piemontese Alessandro Cruto (1847- 1908).

Il 5 marzo 1880, nel laboratorio di fisica dell’Università di Torino, Cruto accese la sua prima lampadina grazie alla messa a punto di un filamento di sua invenzione e ignoto a Edison. La lampadina risultò molto più efficiente di quella realizzata appena 5 mesi prima da Edison (500 ore di durata contro le 40 del collega americano).

Nato a Piossasco, non lontano da Torino,  Cruto fu avviato agli studi tecnico-industriali e fin da giovane iniziò a cimentarsi come inventore. Nel suo laboratorio mise a punto tra l’altro un sistema di graduazione per i termometri. Nel 1879 si “convertì” agli studi sull’elettricità, allora pionieristici. Quell’anno Cruto aveva assistito a Torino alla presentazione dei prototipi di Edison, che il fisico e ingegnere Galileo Ferraris aveva introdotto come una mera curiosità, dati i loro limiti funzionali. Il problema era il filamento, che diventando incandescente per il passaggio della corrente elettrica si consumava troppo in fretta.

Cruto trovò, pochi mesi dopo, la soluzione: usò all’interno del bulbo di vetro filamenti di carbonio purissimo, ottenendo non solo una maggior durata, ma anche una luce più chiara. Altri italiani lavorarono alla lampadina (oltre a numerosi stranieri) come Ferdinando Brusotti (1839-1899), che nel 1877 aveva brevettato una “lampada elettrica a incandescenza”, e Arturo Malignani (1865- 1939), che aumentò la durata fino a 800 ore.

A Little Bighorn i soldati di Custer morirono tutti

L’epica sconfitta del 25 giugno 1876 subita dal 7° Cavalleggeri del tenente colonnello George Custer spazzò via l’intero reggimento. Così narra il mito della battaglia svoltasi nei pressi del fiume Little Bighorn (Montana) contro una coalizione indiana agli ordini di Cavallo Pazzo e Toro. La verità è che non tutti morirono in quella battaglia.

Del gruppo di Custer sopravvisse il trombettiere-portaordini di origini italiane John Martini, che aveva lasciato la colonna del colonnello, e gli squadroni agli ordini di Marcus Reno e Frederick Benteen in gran parte la scamparono. Il reggimento contava 31 ufficiali, 586 soldati, 33 scout indiani e 20 civili: morirono 268 uomini

Newton scoprì la forza di gravità quando una mela gli cadde in testa

La leggenda narra che il fisico inglese Isaac Newton (1643-1727) cominciò a lavorare alla sua legge di gravitazione dopo che una mela gli cadde in testa.

Gli scienziati hanno sempre sospettato che si trattasse di un aneddoto, ma la conferma viene dalla biografia scritta dall’amico e collega William Stukeley. Secondo Stukeley, Newton avrebbe riferito di avere osservato una mela staccarsi da un albero (ma senza finire sulla testa di nessuno) e di averci riflettuto su. Ma il racconto fu fatto molti anni dopo, probabilmente solo a scopo esemplificativo. A tramandare poi l’episodio fu, nel 1734, Voltaire nelle Lettere filosofiche.

 

Gli antichi re di Roma furono 7

In realtà ce ne fu un ottavo e non è Francesco Totti. Si chiamava Tito Tazio, nato a Cures (oggi Fara in Sabina, 37 km a sud di Rieti). Regnò per cinque anni (forse fino al 745 a. C.) e probabilmente in co-reggenza con il primo dei sette (Romolo). Eppure fu un personaggio tutt’altro che secondario: si tramanda che fu lui a urbanizzare il Colle per eccellenza, cioè il Quirinale, già residenza dei papi e oggi del presidente della Repubblica.

Perché quindi nessuno lo ricorda? Quasi certamente non compare nelle liste tradizionali perché ricevette la corona solo in seguito al cosiddetto “ratto delle Sabine”. Per questo avrebbe soltanto affiancato il fondatore dell’Urbe.

Anche il ratto delle Sabine è un “falso” storico.

 Al tempo della fondazione di Roma (VIII secolo a. C.) Romani e Sabini vivevano fianco a fianco: i primi sul colle del Palatino, i secondi su quelli del Campidoglio e del Quirinale. Originari di Alba Longa (Lazio), i Romani erano arrivati lì senza mogli e per assicurarsi una discendenza rapirono le donne dei Sabini (attirati con l’inganno di una grande festa). Questo almeno dice la leggenda di quello che tutti chiamano “ratto delle Sabine”. Leggenda, appunto.

Che Romani e Sabini si siano mischiati è vero, come prova l’origine sabina di alcune parole latine come bos (bue), scrofa, popina (osteria). Che abbiano fatto ricorso a un rapimento invece no. I due popoli si fusero pacificamente tanto che il co-reggente di Romolo fu, per cinque anni, il sabino Tito Tazio.

Eva offrì ad Adamo una mela

 “Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò” (Genesi, 3: 6).

La Bibbia racconta che Adamo ed Eva mangiarono il frutto dell’albero della conoscenza del Bene e del Male, contravvenendo alla proibizione di Dio. Per questa ragione i due furono scacciati dall’Eden, perdendo i privilegi di cui godevano al momento della creazione. La decisione di mordere questo frutto fu dunque il “peccato originale” in conseguenza del quale Dio condannò per sempre l’uomo a un’esistenza difficile, degradata dal punto di vista morale, fisico e spirituale.

Nel testo, però, non è specificato di quale frutto si trattasse. Molti commentatori hanno ritenuto che fosse un fico, anche perché, poche righe più avanti, la Bibbia riferisce che, appena Adamo ed Eva “si accorsero di essere nudi, intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture” (Genesi, 3: 7).

Altri hanno ipotizzato che si trattasse di un grappolo d’uva, di un cedro o di un melograno. L’identificazione dell’albero con un melo avvenne solo durante il Medioevo, forse per via di un’assonanza presente nella lingua latina, in cui malum è sia il male sia la mela: l’albero della conoscenza del male può essere diventato, per un errore di traduzione, un melo.

Una svista, o un’interpretazione, che poi ebbe molta fortuna, coinvolgendo anche altre espressioni linguistiche: il “pomo d’Adamo”, ovvero la sporgenza della cartilagine nel collo frequente negli uomini dopo la pubertà, è detto così con riferimento al “peccato” reso possibile dalla maturità sessuale.

Dopo l’abiura Galileo aggiunse sottovoce”Eppur si muove”

Nel 1633 Galileo fu condannato dal tribunale dell’Inquisizione perché sosteneva che la Terra ruotasse attorno al Sole (e non il contrario). In procinto di recarsi a Roma per il processo, lo scienziato scrisse una lunga lettera all’amico Elia Diodati definendo il libro in cui spiegava le sue teorie (il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo) “esecrando e più pernitioso per Santa Chiesa che le scritture di Lutero e Calvino”. Era quindi del tutto consapevole della gravità della situazione e del pericolo a cui lo esponevano le sue scoperte.

La Storia ci racconta che Galileo non fu condannato a morte perché accettò di abiurare, cioè di disconoscere le sue intuizioni scientifiche e di ristabilire la verità voluta dalla Chiesa. Risulta però difficile credere che – come vuole la tradizione – in un clima di tale ostilità (che pochi anni prima aveva condotto al rogo il filosofo Giordano Bruno) Galileo si azzardasse a soggiungere, seppur sottovoce, la frase “Eppur si muove”, riferendosi alla Terra.

E infatti non andò così: questa ricostruzione fu inventata nel 1757 dal giornalista Giuseppe Baretto, che scrisse un’antologia in difesa dello scienziato. Fu lui a dipingere Galileo più audace e temerario di quanto non fosse stato in realtà.

Lo champagne è nato in Francia

La tradizione vuole che sia stato il benedettino francese Pierre Pérignon (1639-1715) a inventare il metodo per ottenere il celebre vino frizzante. Ma dom Pérignon “copiò” soltanto la tecnica di controllo della doppia fermentazione messa a punto da Christopher Merret, un inglese.

Merret, nato nel Gloucestershire nel 1614, era un mercante specializzatosi nel rendere frizzanti i vini fermi aggiungendovi zucchero e melassa. Un “trucco” (simile al liqueur de tirage usato poi per innescare la rifermentazione dello champagne) che stando agli archivi della Royal society inglese usò per primo nel 1662. Non solo.

La storia di Merret dimostra che il vino con le bollicine ebbe successo prima in Gran Bretagna, mentre in Francia si continuò a preferire la versione ferma dei vini della Champagne. La variante “inglese”, che fece di un difetto (la rifermentazione) un pregio, riuscì a penetrare anche in Francia solo nel corso del Settecento grazie a Filippo II d’Orléans, reggente durante la minore età di Luigi XV.

Il primo a fare il giro del mondo fu Magellano

 Il portoghese Ferdinando Magellano partì nel 1519 da Siviglia, in Spagna, al comando di cinque velieri, con l’obiettivo di raggiungere le Molucche, nell’arcipelago indonesiano, allora note come le Isole delle spezie (da lì si importavano pepe, cannella e altri beni preziosi). Ma decise che ci sarebbe arrivato navigando verso ovest invece che verso est circumnavigando l’Africa, come si usava allora.

Una volta superata la punta meridionale dell’America del Sud attraverso lo stretto che oggi porta il suo nome, riuscì a raggiungere le Filippine, dimostrando la praticabilità della nuova rotta. Ma qui, il 27 aprile 1521, perse la vita durante uno scontro con gli indigeni.

Magellano, dunque, non completò la circumnavigazione del globo. Fu il suo vice, il capitano basco Juan Sebastián Elcano, a prendere il comando della spedizione e a diventare il primo a compiere il giro del mondo.

Napoleone fu detto “il piccolo caporale” perché era basso

Non era un gigante, ma non si poteva certo definire basso. Secondo le fonti Napoleone era alto un metro e 69: una statura di tutto rispetto negli anni in cui visse (1769-1821) e nella media dei suoi tempi.

È noto infatti che l’altezza delle popolazioni aumenta progressivamente da una generazione all’altra grazie alle migliori condizioni alimentari e igienicosanitarie, fino a raggiungere un livello stabile (com’è avvenuto per molti popoli occidentali, ma non ancora per alcuni di quelli in via di sviluppo).

Perché allora Napoleone fu definito le petit caporal, cioè “il piccolo caporale”?

L’ipotesi degli storici è che si trattasse di un soprannome dovuto all’affetto e alla simpatia che i soldati nutrivano nei suoi confronti nonostante la giovane età, e non alla statura.

La Rivoluzione francese scoppiò con la presa della Bastiglia

Per gli storici la Rivoluzione francese, che considerano come una lunga sequenza di avvenimenti durata quasi 10 anni, iniziò con la convocazione degli stati generali il 5 maggio 1789. Fu allora che il terzo stato (la borghesia) si pose alla testa della rivolta contro il sistema feudale (l’ancien régime).

Quanto all’insurrezione violenta di luglio, non cominciò con l’assalto alla Bastiglia. L’assalto alla Bastiglia del 14 luglio 1789 fu solo uno dei tanti episodi di una rivolta che in Francia era già dilagante (soprattutto a causa della carestia e delle tasse).

La capitale stessa da un paio di giorni era preda delle sommosse. Dal 12 luglio si era insediato un comitato permanente rivoluzionario che si contrapponeva al governatore reale. L’attacco alla fortezza-prigione della Bastiglia, poi, ebbe all’inizio uno scopo pratico: impossessarsi delle polveri e delle armi della guarnigione. Fu condotto a partire dal mattino da circa 900 rivoltosi, mentre nella città erano già state alzate barricate.

Dopo il fallimento di una trattativa con il comandante della guarnigione di 114 uomini, Bernard- René de Launay, scoppiò una breve battaglia. Verso le 5 del pomeriggio gli assedianti entrarono dal ponte levatoio, liberando i sette detenuti. La fortezza (eretta nel 1382, ma mai strategica) era stata trasformata in prigione dal cardinale Richelieu nel Seicento. Avendo avuto tra i suoi (mai numerosi) ospiti anche personaggi come l’illuminista Voltaire, la propaganda rivoluzionaria fece di quell’assalto l’evento scatenante della rivolta e il 14 luglio divenne festa nazionale francese.

Fonte “Focus”

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