Il totem del lupo


Un assaggio di un bellissimo libro, scritto da un dissidente cinese, sotto falso nome, che raccoglie una meravigliosa riflessione sulla vita.

Ho avuto un grande piacere nel leggerlo e, ve lo raccomando!

Il libro è ancora oggetto di molte polemiche nel suo paese d’origine, l’autore, Jiang Rong, che ha passato circa un terzo della sua vita a scrivere questa storia, ci racconta del percorso d’iniziazione di un giovane istruito della capitale, spedito come pastore insieme con un gruppo di altre persone in Mongolia Interna, per partecipare alla grande opera di civilizzazione voluta dalle autorità cinesi all’epoca della rivoluzione culturale, con l’intento di rendere sedentario questo popolo nomade.

Il totem del lupo segue la trasformazione di un giovane uomo a contatto con il popolo mongolo e i lupi.

Affascinato dalla saggezza dei primi e dall’intelligenza e dalla libertà dei secondi, l’eroe finisce per mettere in dubbio i fondamenti del regime cinese.

Il racconto termina con una dura condanna del popolo cinese, definito un gregge di pecore, in opposizione al valoroso popolo di guerrieri della steppa.

Racconto naturalistico e politico mascherato sotto le sembianze di una favola, un sentito omaggio alla natura e una reale critica alla politica ambientale cinese, questo romanzo, di oltre 600 pagine, è ricco di incredibili racconti, pieno di riferimenti storici dell’epoca e avventure dal sapore epico, ha sedotto tutti i tipi di pubblico, dagli amanti di Stendhal, i cui scritti hanno ispirato l’autore, agli ambientalisti e gli amanti degli animali; dagli storici agli ecologisti fino ai politici.

Perdersi nelle descrizioni dei paesaggi e nella quotidianità del popolo mongolo, ci da modo di intraprendere un viaggio all’interno di noi stessi e ci stimola a porsi delle domande sulla nostra stessa esistenza.

E’ un inno alle leggi della natura che da sempre governano il mondo e che l’uomo si ostina a voler piegare alla propria avidità.

E’ un inno al lupo, un animale di grande fascino, di estremo coraggio, di raffinata intelligenza.

E’ un inno a quell’uomo che vive nella e della natura, conservandola e non stravolgendola. 

Dal libro è stato tratto un film, L’ultimo lupo, che, seppure gradevole, a mio modo di vedere,  non rende appieno il messaggio che ha voluto trasmetterci lo scrittore.

” 

Chen Zhen percorse con lo sguardo l’intero spazio. Per poco non cadde di sella quando si accorse di un branco di lupi appostati nella neve una quarantina di metri più avanti sopra di loro, sul versante riscaldato dagli ultimi raggi del sole che conferivano al loro mantello uno spettrale aspetto dorato.

Dall’alto le belve lo scrutavano di sbieco e di fronte, con occhi ostili e minacciosi. Se li si sentiva addosso, sulla pelle, dentro di sé, quegli sguardi acuminati e insistenti, che gli penetravano il corpo come gli aculei di un istrice.

I lupi più vicini sembravano grossi come leopardi. In altezza erano almeno una volta e mezzo quelli che aveva visto allo zoo di Pechino.

Una decina di esemplari, che al suo arrivo erano sdraiati, si alzarono di scatto sbuffando, le lunghe code tese come sciabole o come archi in procinto di colpire il nemico. In mezzo a loro, al centro, si ergeva il capobranco.

Chen Zhen lo riconobbe dalla fierezza dell’aspetto. Illuminato dai raggi dell’ultimo sole, sfoggiava un mantello argenteo, che andava sfumando verso il bianco sul collo, sul torace e sull’addome.

Calcolò che in tutto gli animali dovevano essere almeno una trentina. Forse addirittura quaranta. Quando in seguito raccontò l’accaduto a Bileg, il vecchio gli spiegò che probabilmente aveva interrotto un raduno.

I lupi dovevano avere avvistato nei paraggi qualche mandria di cavalli e il capobranco stava dettando le istruzioni per sferrare l’attacco a sorpresa. Per fortuna, non dovevano essere affamati: quando il mantello lucido, vuol dire che sono ben nutriti.

Sarà anche stato così, ma a quello spettacolo Chen Zhen si sentì mancare le forze. Fu una sensazione strana. Ricordava di avere avvertito un suono lieve, metallico, simile a quello che, vibrando, produce una moneta d’argento purissimo in balia del vento.

Solo in un secondo tempo capì che quello era il suono dell’anima che lo abbandonava, lasciando dietro di sé un involucro inerte, il corpo. Per un interminabile istante la vita di Chen Zhen si interruppe.

Tempo dopo, ripensando a quell’esperienza spaventosa, il giovane provò un profondo senso di gratitudine verso Bileg. Se non gli avesse prestato il suo cavallo, non se la sarebbe cavata.

Era un animale speciale, abituato alla caccia: aveva avuto a che fare con i lupi un’infinità di volte e sapeva come comportarsi.

Quando tutto sembrava perduto, il cavallo ritrovò infatti la calma necessaria. Come un viandante che passasse di li per caso, proseguì per la sua strada, sotto lo sguardo vigile dei lupi. Si comportava con indifferenza, lasciando intendere che non aveva intenzione di disturbarli.

Stava attento a non commettere passi falsi, moderava l’andatura assicurandosi, come un giocoliere addestrato a reggere sul capo pile di piatti e di tazze di vetro, che il suo inesperto cavaliere non si inclinasse troppo dilato e perdesse l’equilibrio.

Forse fu proprio il coraggio del cavallo a richiamare indietro lo spirito di Chen Zhen che si era disperso nell’aria prima del tempo, o forse fu il Cielo, il Tengger, a correre in suo aiuto e a ridargli coraggio.

A chiunque fosse debitore, nel preciso istante in cui l’anima ritornò al suo posto dopo aver fiuttuato nell’aria gelida, Chen Zhen sentì crescere dentro di sé una calma inspiegabile, che veniva da lontano e gli faceva scoprire una determinazione che non sospettava di possedere.

Si risistemò saldamente in sella e, prendendo esempio dal comportamento del cavallo, raccolse le forze che gli rimanevano.

Finse anch’egli di non essere impensierito dalla vicinanza dei lupi. Si limitava a controllame i movimenti con un’occhiata furtiva. Sapeva quanto fossero rapidi nella corsa: potevano coprire le poche decine di metri che li separavano in una manciata di secondi. 

Avvertendo quasi il loro fiato sul collo, Chen Zhen si disse che non doveva mostrare il minimo segno di debolezza.

Ricordò una massima di Zhu Geliang, lo stratega del periodo dei Tre Regni: esibisci un fronte compatto, raccomandava, se vuoi tenere nascosta al nemico la vulnerabilità della tua difesa.

Ecco, doveva avanzare come se fosse preceduto da un impenetrabile reparto di fanteria e avesse le spalle coperte da schiere di soldati a cavallo. Soltanto così, giocando d’astuzia, poteva sperare di avere la meglio sul feroce e scaltro signore delle praterie.

Sulla valle era ormai sceso il buio. Senza nemmeno lasciare a Chen Zhen il tempo di risistemarsi, il cavallo prese a correre al galoppo verso ’accampamento vicino.

Il giovane sentiva il vento pungente che gli si infilava attraverso il colletto e le maniche, e gli raggelava il sudore.

Da quel giorno Chen Zhen ebbe sempre rispetto per il Tengger, il Cielo che gli abitanti della prateria venerano come un dio, e non dimenticò mai di rendergli onore.

Nei confronti dei lupi, invece, sentiva crescere dentro di sé un sentimento ambiguo, di attrazione e insieme di timore reverenziale.

Era affascinato dal potere demoniaco di quelle creature che avrebbero potuto prendergli l’anima. Sprigionavano una forza magnetica di cui non aveva mai avuto esperienza prima. Probabilmente la gente della prateria aveva scelto il lupo come totem proprio in virtù di quella forza, che conosceva pur non potendo percepirla con i sensi.

In qualche modo il giovane sentiva di aver penetrato il segreto della spiritualità mongola. Aveva aperto su quel mondo solo un impercettibile spiraglio, eppure vi si sentiva già completamente immerso.

Nei due anni che seguirono, Chen Zhen non si trovò altre volte tanto vicino a un branco di lupi così numeroso. Mentre pascolava le pecore, gli era capitato di scorgerne qualche esemplare in lontananza.

Ma, persino quando si spingeva più lontano, era raro che ne incontrasse più di quattro o cinque insieme. In compenso, quasi sempre si imbatteva in  carcasse di pecore, di mucche o di cavalli. 

Gli era accaduto persino di vedere un’immensa distesa di ossa, un autentico cimitero a cielo aperto.

In un’altra occasione, mentre si recava in un accampamento vicino, si fermò a osservare un gruppo di cacciatori che stavano scuoiando un lupo e, una volta terminato il lavoro, ne appendevano la pelle sulla cima di un palo lasciandola ondeggiare al vento, come una bandiera o un vessillo.

Il vessillo del lupo.  ” 

lup

Tratto dal libro “il totem del lupo”, di  Jiang Rong

 

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