Dove il vento grida più forte


Questo è un libro di che ho scoperto per caso, leggendo un articolo su una rivista, e che mi ha incuriosito da subito, così lo ho acquistato e letto tutto d’un fiato.

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Quando, trent’anni fa, lo scrittore Robert Peroni, esploratore di professione, arriva in Groenlandia per battere l’ennesimo record, si sente sperduto: una famiglia in Italia, e una professione di cui non comprende più il senso.

A ridare una direzione alla sua vita è l’incontro con  gli Inuit, vero nome degli “eschimesi”.

Nonostante i bianchi da anni impongano divieti che impediscono loro di vivere dignitosamente, lo accolgono come un amico, perché ogni uomo è solo se stesso e la solidarietà è un dovere.

Affascinato da questa cultura, Robert si trasferisce nel centro più grosso della costa orientale, un paese di duemila abitanti, isolato nove mesi l’anno, e ne abbraccia la lingua, gli usi, le regole non scritte.

Il rifiuto di lamentarsi, la fame, il freddo, le privazioni sono accettate con il sorriso sulle labbra, perché soffrire è parte dell’esistenza.

Da loro impara ad ascoltare le storie che porta il vento, la bellezza di vivere nel presente e la poesia nascosta nello sciamanesimo.

Il libro racconta l’incontro con un popolo straordinario, che ha come unica arma la dolcezza, e con una terra ostile e meravigliosa, in cui la natura è madre e matrigna, dispensatrice di vita e di morte.

 

Sono tante le differenze che ho imparato a conoscere e ad apprezzare in questi anni. Per esempio, qui non esiste l’invidia.

Tutti hanno talmente poco che non ha senso desiderare la vita di altri. Né hanno il senso della proprietà.

Se uno ha una casa, il terreno che c’è davanti non è suo: se da buon altoatesino faccio crescere un po’ d’erba davanti alla porta, tutti ci camminano sopra.

Se costruisco un recinto per gli ospiti della Casa Rossa, i miei vicini lo scavalcano e ci passano dentro. Sono in cinquantottomila su un territorio grande sette volte l’Italia, che senso avrebbe fare dispute territoriali?

C’è talmente tanto spazio che a nessuno verrebbe in mente di delimitare la propria terra. Questo aspetto abbraccia tutta la sfera della loro esistenza.

Gli inuit non dicono: «È mio figlio», ma: «È figlio». Nessuno può essere proprietario di un essere umano, tantomeno di un figlio. Scherziamo?

Un bravo genitore, per loro, è quello che fa il possibile perché il figlio sia felice. E se pensano che potrebbe essere più felice sotto la guida di qualcun altro, chiedono a quest’ultimo se vuole prenderlo con sé. Non per levarselo di torno, ma perché vogliono che lui sia sereno.

 

È anche un libro di denuncia, perché mette in luce le contraddizioni del nostro modo di vivere “progredito”, paragonandolo alla semplicità del loro modo di affrontare senza lamentarsi, le avversità di una terra estrema, ponendo una domanda basilare: 

“Chi sono i veri primitivi: noi, che in trent’anni abbiamo distrutto una civiltà millenaria, o gli Inuit, che in quattromila anni non hanno mai fatto una guerra?

Buona lettura
 

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