Perché fa bene coltivare l’orto 1


Un tempo si diceva che l’agricoltura fosse un mestiere faticoso e poco nobile, si usava dire: «La terra è bassa!»

Oggi la situazione si è imprevedibilmente ribaltata: un fazzoletto di terra da coltivare è diventato una specie di status symbol.

È un piacere enorme sentire amici, conoscenti e un numero sempre crescente di persone entusiasmarsi per essere riusciti a coltivare i pomodori sul balcone o per aver ridato vita all’orto della casa in campagna.

È davvero un periodo di rinascita culturale. Mentre i modelli di consumo falliscono, mentre la crisi economica imperversa, le persone reagiscono tornando a fare qualcosa di concreto, utile per la salute mentale e fisica.

Come a dire che, anche se il mondo intorno crolla, c’è sempre una piccola speranza nel coltivare il nostro piccolo orticello e nell’accorgerci che per essere felici basta poco.

In gruppo, da soli oppure insieme alla propria famiglia: coltivare sta diventando un modo per salvare i rapporti tra le persone, in alcuni casi è meglio di una vacanza.

Ovviamente la terra è rimasta sempre «bassa», e richiede sempre fatica, ma è sicuramente una forma di impegno fisico che, se fatto bene, rigenera il corpo e la mente.

Mi piace la visione dei giapponesi, molto più lungimiranti di noi, in questo senso.

Come mi raccontava un caro amico andato a vivere in Giappone, da quelle parti si usa dire: «Lavorare la terra è il mestiere più nobile, perché è l’unico caso in cui bisogna spesso inginocchiarsi senza mai perdere l’onore».

Ma se l’orto fa bene alla salute dei cittadini e può essere una scelta di gusto, può rappresentare anche la soluzione a problemi ancora più gravi, come la povertà.

Secondo la FAO, dal 2020 la popolazione urbana mondiale che vive in povertà potrebbe raggiungere il 45 per cento, ovvero 1,4 miliardi di persone.

Di fronte a questa cosiddetta «population bomb», il miglior detonatore per la FAO consiste nel prendere in mano le zappe e coltivare in città e nelle campagne periurbane.

L’esodo mondiale dalle campagne ha recentemente fatto registrare un superamento della popolazione cittadina rispetto a quella della campagna.

Solo in Africa i contadini urbani sono ben 130 milioni, in America Latina 230 milioni. Shivaji Pandey, direttore della divisione Produzione vegetale e protezione delle piante della FAO, sostiene che l’orticoltura urbana sia la soluzione al problema della povertà.

Perché è il modo più economico per accedere a cibo fresco, con migliori qualità organolettiche.

Il cibo urbano a buon mercato, consumato dalla popolazione povera, è di cattiva qualità: ha un alto contenuto di grassi e zuccheri ed è responsabile di malattie croniche quali il diabete e patologie cardiovascolari.

Soprattutto negli ambiti urbani più poveri sono sempre meno disponibili cibi freschi di qualità.

Questo fenomeno caratteristico soprattutto delle grandi metropoli prende il nome di «food desert», ovvero i deserti del cibo, e indica le zone della città in cui si registra una riconosciuta difficoltà di accesso al cibo.

Dal Nord al Sud del mondo, l’orto diventa quindi il modo per sconfiggere la povertà e la crisi economica, per cavarsela da sé, per stare all’aria aperta e, perché no?, per imparare nuovamente a prendere la giusta misura del tempo, delle stagioni e della bellezza delle cose semplici.

L’orto è importante per comprendere, sin da piccoli, l’origine del cibo, il modo per produrlo da sé, aumentando la sicurezza alimentare e creando un ambiente e una comunità più sani.

Contribuisce a ridurre i consumi energetici e la produzione di spazzatura, a diminuire gli sprechi e a incrementare la qualità della vita.

Una delle più belle lezioni sull’orto che abbia mai sentito è di Aurora, ortista urbana e pioniera dei Community gardens nelle periferie di Milano:

«Coltivare l’orto serve per avvicinarsi alla terra e comprendere la complessità della vita, riprendersi i tempi naturali, le stagioni, rimettersi in sintonia con l’ambiente, le piante e gli animali. Essere dentro la natura e non più fuori dai processi. Un’orizzontalità di rapporti con le cose, dentro la natura. Vedere che tutto si trasforma davvero e nulla si distrugge».

Sorrido ancora pensando ad Aurora che storce il naso di fronte all’espressione «hobby farmer». Mi dice: «Noi non siamo hobby farmer! Prima di tutto, per farmer s’intende un agricoltore vero e proprio, che coltiva per produrre in quantità, allevando e altro ancora. Qui nell’orto in città si coltiva per motivazioni differenti, per stare bene, per riappropriarsi del saper fare da sé. Le superfici non basterebbero per l’autosufficienza completa. Le persone vengono a coltivare per ragioni diverse, vogliono in un certo modo riscattarsi e uscire dal contesto quotidiano del lavoro che non li valorizza dal punto di vista umano».

Aurora racconta che nell’orto comunitario si scoprono talenti: chi sapeva fare l’elettricista o l’idraulico, e lo aveva fatto da giovane o in passato, nell’orto ritrova i propri ricordi e riscopre un talento.

La testimonianza di Aurora, del Giardino degli Aromi di Milano, ci fa capire che l’orto può essere un mezzo per rigenerare la comunità e dare una seconda chance alle persone.

E, proprio nell’ottica di offrire una seconda chance, voglio ricordare l’importanza dell’orto-terapia, diventata ormai una pratica accreditata anche presso le strutture ospedaliere, per aiutare i malati terminali, o per migliorare le condizioni di vita di disabili e malati mentali, che trovano nell’orto una dimensione in cui mettersi in gioco, abbattere le barriere e far emergere le proprie capacità.

È quello che è accaduto qualche anno fa in Cascina Bianca, un centro diurno per disabili e autistici nel quartiere Quinto romani di Milano, dove insieme ad alcuni amici, Fabio e Ambrogio, e alla nostra associazione Nostrale, abbiamo dato vita a un orto.

Grazie al lavoro della responsabile, Anna, abbiamo toccato con mano la felicità che dà un piccolo fazzoletto di terra coltivata.

Ma penso anche agli orti dell’ex Ospedale psichiatrico Paolo Pini, dove sono rimasto affascinato di fronte ad alcune creazioni che potevano senza dubbio essere definite «artistiche»: sostegni per pomodori e altri ortaggi realizzati intrecciando rami di alberi, arte pura.

E poi, tutto intorno, aiuole rialzate, contenute da complessi ed eleganti intrecci di legno. Quando li ho visti, ho sentito che non si trattava della mano di un appassionato della domenica, c’era molto di più: c’era una forza umana, uno sguardo speciale sul mondo.

Sono rimasto diversi minuti a osservare la maestria e l’eleganza di tanta bravura, altroché designer o architetti, c’era lo zampino di un artista eclettico.

Era evidente, ero di fronte all’ennesima prova che c’è sempre da imparare, e più guardavo quelle meravigliose strutture, più rimanevo affascinato e colpito per la sana ammirazione che provavo.

Parlando poi con una delle responsabili degli orti, ho finalmente scoperto chi aveva dato vita a quelle bellissime installazioni orticole.

Era un ragazzo del quartiere, che verrebbe sbrigativamente definito una persona ai margini, con qualche problema mentale.

Mi hanno confidato che nella vita di tutti i giorni quell’artista-ortista non parla molto e ha problemi nelle relazioni, ma che nell’orto ha trovato la sua giusta dimensione, una forma d’espressione più facile e immediata.

Ha realizzato opere che potremmo definire di land art, una forma d’arte che utilizza esclusivamente materiali naturali.

Tanta bellezza non era fine a se stessa, era frutto di un lavoro svolto, quasi inconsapevolmente, per raggiungere un equilibrio mentale e un impegno che in altri modi o luoghi della città non avrebbe potuto mai trovare.

Ma torniamo a noi: prendendoci cura delle piante, ci prendiamo cura di noi stessi. Sono molti i benefici di uno spazio verde.

Secondo il sociologo Kaplan, se coltiviamo per ottenere un raccolto, utilizziamo l’attenzione volontaria orientata al raggiungimento di un obiettivo.

Grazie a quattro aspetti evidenziati da Kaplan, quattro parole-chiave che rappresentano il segreto dell’orto-terapia, l’orto e il giardino sono in grado di ridurre lo stress quotidiano:

            Being away: inteso come «distrazione», distanza dai problemi. Quando siamo immersi in un ambiente naturale prendiamo le distanze dal contingente, dall’affanno del quotidiano.

            Fascination: inteso come «incanto». Questo concetto è strettamente collegato a quello di bellezza, vale a dire a quella meraviglia e a quella seduzione che ci fanno utilizzare l’attenzione involontaria che agisce senza sforzo cerebrale e nella quiete della mente.

            Extent: racchiude il concetto di spazialità, compenetrazione, «connessione». È l’aspetto legato alla biofilia e al nostro appartenere a uno o più sistemi tra loro collegati.

            Compatibility: inteso come «affinità», sentirsi a proprio agio. E indica proprio quello che accade in un giardino, dove vengono abbandonate le difese: non ci sentiamo giudicati e non giudichiamo, non ci sentiamo separati e non separiamo, non ci sentiamo offesi e non offendiamo.

L’orto è lo scenario ideale in cui guarire i disagi del corpo e dell’anima.

Nel suo libro Il verde urbano, Lucia Milone spiega bene le dinamiche positive che si innescano all’interno di un giardino, l’idea di curare curando è la chiave del successo della coltivazione, per trovare il proprio riscatto e la rappacificazione con gli altri e con se stessi.

Declinato nell’ottica di aiutare le persone, nel libro di Lucia Milone leggiamo:

«Recupero, ripristino, riabilitazione, reinserimento: queste parole-chiave indicano la stessa cosa per il verde e per le persone in difficoltà, e indicano la via che, con i criteri del sentirsi utili e della professionalità, può portare all’autoaffermazione».

Coltivare può dare una seconda opportunità, può essere il modo e l’occasione per riprendere in mano la propria vita.

E nella sua accezione più stimolante diventa il modo per riattivare una comunità, grazie alla partecipazione al verde attraverso gli orti comunitari.

Con la realizzazione di un orto urbano a partire dal patto che nasce tra le persone unite nella coltivazione e nella gestione dell’orto, si consolida un’alleanza, una speciale coesione sociale che attraversa le generazioni e supera ogni differenza sociale e culturale.

L’orto diventa così uno strumento per migliorare la vita di ognuno e, grazie alla sua semplicità, è la chiave di volta per la cura delle persone e della comunità.

Tratto da  “Orto” di Davide Ciccarese

 


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