Il parmigiano del Wisconsin


Ho letto di recente un libro molto interessante ” Denominazione di Origine Inventata”, di Alberto Grandi, che mi ha “illuminato” su come sia facile, in assenza di un approfondimento, venire raggirati dalla pubblicità e dal marketing, in particolar modo su quello che mangiamo e difendiamo a spada tratta come autentico orgoglio nazionale!

Parmigiano, pomodori pachino, Marsala, lardo di Colonnata, prosciutto,  sono solo alcuni dei

prodotti trattati nel libro.

Non si finisce mai di apprendere e questo libro ci aiuta a farlo, in maniera chiara e semplice. 

   

 

Il Parmigiano Reggiano DOP è uno dei prodotti agroalimentari di maggior successo al mondo. Questo dipende certamente dalle sue qualità di gusto e anche dalla sua storia millenaria, che gli conferisce un indiscutibile fascino e la grande reputazione internazionale. Ma il Parmigiano Reggiano è anche uno dei prodotti che hanno conosciuto la più profonda trasformazione negli ultimi cinquant’anni. Infatti il formaggio che mangiamo oggi ha poco a che vedere con quello che si produceva e si consumava fino a qualche decennio fa, che invece assomigliava molto di più al famigerato Parmesan del Wisconsin, di cui parlerò più avanti.

     Sintetizzare la storia del Parmigiano Reggiano in poche pagine è oggettivamente impossibile; questo formaggio, con tutte le denominazioni che ha di volta in volta assunto, è probabilmente l’unico prodotto tipico del quale possiamo raccontare le trasformazioni in un arco temporale di un millennio o giù di lì. La storia del Parmigiano è comunque un’epopea che merita di essere ricordata ogni volta che se ne ha l’occasione, anche perché ci sono un po’ di questioni irrisolte che è giusto fare presenti e, come al solito, un po’ di miti da sfatare.

     Inizio con un consiglio spassionato: lasciamo in pace i Romani, in particolare Plinio e Marziale, che talvolta vengono citati per dimostrare che in quell’angolo di Pianura Padana si produceva formaggio anche nell’antichità. Si tratta, evidentemente, di una non notizia: ovunque ci fosse del latte c’era il problema di evitare il suo veloce deperimento; la coagulazione della caseina, acida o presamica (per farne formaggio), e la fermentazione (per farne yogurt) sono da parecchi millenni e per tutte le popolazioni i sistemi più usati, non solo dalle parti di Parma.

     È un fatto consolidato che già nel Medioevo il “formaggio di Parma” godesse di una certa fama e di un certo prestigio. Su questo ci sono pochi dubbi: le testimonianze letterarie e anche quelle di carattere squisitamente commerciale sono certamente numerose. Fin troppo nota è la descrizione che a metà del XIV secolo Boccaccio fece del paese di Bengodi, con la sua “montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato”. Forse meno noti sono i registri contabili di una ricca famiglia di mercanti toscani, sempre del Trecento, nei quali sono stati annotati gli acquisti di tutti i cibi che servivano per il sostentamento della famiglia, tra i quali i formaggi.

     Insomma, le fonti tardomedievali fanno emergere in maniera abbastanza netta la reputazione di cui godeva il formaggio di Parma in Italia, ma anche nel resto d’Europa. Meno semplice stabilire, per questo periodo, l’effettiva diffusione del Parmigiano al di fuori dell’area 
di produzione. E qui devo subito aprire una serie di questioni di non poco conto e che ci trascineremo fino alla fine di questa storia: come era fatto questo formaggio? Quante forme se ne producevano a Parma e dintorni? E infine, quanto erano grosse queste forme?

     Per rispondere a queste domande, soprattutto alle ultime due, evidentemente, non possiamo fare riferimento a dati precisi; come si sa, prima della rivoluzione industriale i dati statistici avevano l’attendibilità di un oroscopo. Dobbiamo quindi muoverci per approssimazioni.

     Concentriamoci sui pochi numeri che abbiamo. In effetti, qualche numero abbastanza preciso cominciamo ad averlo solo intorno alla metà dell’Ottocento; niente di particolare, sia chiaro, ma insomma possiamo almeno tentare di fare due calcoli. Già, perché anche qui abbiamo un problemino: come detto, il formaggio di Parma godeva di una fama internazionale molto elevata da alcuni secoli, tanto che all’inizio del XVII secolo si era istituita una sorta di denominazione di origine ante litteram, ma nel secolo successivo la produzione di questo formaggio conobbe un repentino declino, a quanto pare sia dal punto di vista quantitativo, sia da quello qualitativo. A dar retta ai parmigiani la colpa fu dei francesi, delle truppe imperiali, delle guerre, delle malattie bovine, del sistema fiscale e di altro ancora; potremmo aggiungere le inondazioni e le cavallette e sarebbe come ascoltare John Belushi in The Blues Brothers. Ma, al di là dell’italica tendenza al lamento, è sicuramente vero che una serie di circostanze sfavorevoli penalizzarono l’allevamento bovino nella zona compresa tra Parma e Modena a partire dai primi decenni del Settecento.

     E qui abbiamo il primo colpo di scena: dalla seconda metà del Settecento quasi nessuno parlò più del formaggio Parmigiano, tutti a parlare e a glorificare il formaggio Lodigiano e più avanti anche il Piacentino. Come si è detto, i dati a disposizione sono pochi e frammentari, ma tutto lascerebbe intendere che a quel tempo a Parma e dintorni di formaggio se ne facesse proprio poco e quel poco che si produceva non sembrava poter competere con il Lodigiano per qualità e reputazione internazionale. Per intenderci, poco dopo la metà del XIX secolo, il numero di vacche da latte per superficie coltivabile nel Parmense era il più basso di tutta l’Emilia-Romagna, addirittura inferiore a quello di province certamente non note per la loro produzione di latte e derivati come quelle di Forlì e Ravenna. La produzione lattiero-casearia della provincia di Parma crescerà in maniera rilevante solo con l’inizio del XX secolo. Insomma, i dati che abbiamo sembrano parlare chiaro: c’è un buco di 150 anni durante i quali la produzione di formaggio a Parma e dintorni sembra quasi scomparire. E non è un dato di poco conto, perché questo vorrebbe dire che il vero erede del formaggio di cui parlava Boccaccio sarebbe l’attuale Grana Padano più che il Parmigiano Reggiano.

     La rinascita della zootecnia parmense alla fine del XIX secolo e soprattutto all’inizio del XX, con la conseguente crescita del settore lattiero-caseario, era dovuta a molti fattori. Innanzi tutto occorre ricordare la nascita, nel 1892, della “cattedra ambulante di agricoltura” di Parma, un istituto di istruzione agraria, rivolta in particolare ai piccoli proprietari e ai mezzadri, che fece conoscere in tutta la provincia le moderne pratiche agricole. A questo bisogna aggiungere il miglioramento tecnologico indotto dalla progressiva meccanizzazione e, non ultimo, l’affermarsi del movimento cooperativo e la nascita di molte latterie sociali.
Alla vigilia della Prima guerra mondiale, la zona compresa tra le province di Parma, Reggio Emilia, Modena e Mantova aveva ormai raggiunto livelli di eccellenza nazionale dal punto di vista dell’allevamento bovino e della produzione di latte e derivati. Tra le due guerre il formaggio prodotto in quest’area assunse definitivamente la denominazione “Parmigiano Reggiano” e nel 1938 fu costituito il primo consorzio di tutela che ne garantirà in eterno la qualità eccelsa.

     Bene, abbiamo rimesso tutto a posto, quindi? Possiamo dire che, a parte quel piccolo buco storico di 150 anni, a questo punto l’ordine era stato ristabilito? E possiamo anche dire che il meraviglioso formaggio cantato dai poeti del Medioevo e desiderato da tutti i Signori d’Europa, dopo un lungo peregrinare per la Pianura Padana, era finalmente tornato a casa? Ma neanche per sogno! Come si diceva, abbiamo il problema della qualità, cioè dobbiamo cercare di capire come fosse questo Parmigiano Reggiano prima e dopo la rinascita novecentesca.

     Non intendo annoiarvi con la questione delle razze bovine e nemmeno con quella dei foraggi, che già da sole dovrebbero indurci a pensare che il Parmigiano del Settecento e dell’Ottocento fosse ben diverso da quello del Novecento. È evidente, infatti, che cambiando la razza delle vacche e l’alimentazione cambiano le caratteristiche del latte e quindi anche del formaggio che se ne ricava. Ma questo possiamo ancora considerarlo un fatto fisiologico: la vacca frisona produce circa il doppio del latte che riesce a produrre una vacca di una razza italiana ed è quindi naturale che nel corso del Novecento gli allevatori siano stati indotti a sostituire razze meno produttive con una più produttiva; se per questo motivo le caratteristiche del latte sono nel frattempo cambiate, diciamo che se ne sono fatti tutti una ragione.

     In realtà, il problema delle caratteristiche del Parmigiano Reggiano è molto più profondo e non dipende solo da una maggiore disponibilità di materia prima o dai suoi cambiamenti indotti dalle nuove razze e dai nuovi foraggi; anche, ma solo in parte. Se guardiamo i documenti medievali, infatti, scopriamo che il formaggio di Parma era ben diverso dal Parmigiano Reggiano che compriamo oggi al supermercato. Oggi una forma di Parmigiano si aggira intorno ai 40 chili, nel Medioevo raramente superava i 10 chi li e la dimensione media si attestava intorno ai 7 chili. Non solo, ma tutto lascia pensare che questo antico formaggio, in ogni sua denominazione, fosse molto più grasso e morbido, seppur grattugiabile, rispetto a oggi. Del resto, la consistenza morbida e più simile a quella dei formaggi da mangiare a fette che a quella degli attuali grana da gustare a scaglie è rimasta tale fino al secondo dopoguerra almeno; non va dimenticato che qualcuno sosteneva che il Parmigiano, come il Lodigiano, per essere di qualità dovesse fare la famosa goccia.

     Le forme di Parmigiano, ma anche quelle di Lodigiano e del futuro Grana Padano, dopo la Seconda guerra mondiale cominciarono lentamente a crescere di peso. I motivi erano probabilmente legati alla più facile conservazione, alla maggiore stabilità del prodotto ma anche alla progressiva standardizzazione tra i vari caseifici. Tale incremento, però, si è concentrato soprattutto negli ultimi cinquant’anni. Non va dimenticato, infatti, che fino alla Seconda guerra mondiale una forma di Parmigiano pesava 20 chili circa e che per conservarla la si ricopriva con strane misture di olio e cenere; la classica immagine del Parmigiano, fino agli anni Sessanta, era proprio quella della forma abbastanza piccola e con la crosta completamente nera
Aspettate un attimo: un formaggio piuttosto morbido, con forme di circa 20 chili e dalla crosta nera… mmm… dove l’abbiamo già visto? Ma certo, è il Parmesan del Wisconsin! Anche qui è facile capire cosa sia successo: tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, tra i milioni di italiani che si trasferirono in America, c’era evidentemente qualche casaro o comunque qualcuno che sapeva fare il formaggio. Tra tutti gli Stati americani, quello che garantiva maggiori possibilità di lavoro a chi possedeva queste competenze era tradizionalmente il Wisconsin e così alcuni di questi immigrati, magari dopo aver lavorato per un po’ di tempo alle dipendenze di qualche imprenditore locale, decisero di rischiare e di mettersi in proprio, producendo il formaggio che conoscevano, cioè il Parmigiano o il Grana, come lo si produceva in quel periodo in Italia. Negli anni Trenta nacquero nel Wisconsin un certo numero di caseifici i cui proprietari avevano nomi evidentemente italiani, anzi padani, per essere più precisi; i quali misero sul mercato il “loro” formaggio e lo chiamarono con il nome inglese più vicino alla loro memoria: “Parmesan”, appunto.

     Il bello è che questo formaggio ebbe subito un grande successo sul mercato nordamericano e quindi non solo gli italiani, ma anche alcuni caseifici americani, via via più numerosi, iniziarono a produrlo, ovviamente mantenendo le caratteristiche che lo avevano reso celebre. Se fino alla guerra Parmigiano e Parmesan rimasero sostanzialmente gemelli, il secondo all’insaputa del primo, con le ovvie differenze legate alla diversa materia prima, a partire dagli anni Sessanta il Parmigiano Reggiano, insieme al Grana Padano, conobbe un’evoluzione straordinaria. Crebbero le dimensioni della forma, si accentuarono le caratteristiche che lo rendevano adatto a un uso gastronomico oltre che al consumo diretto, si migliorarono le tecniche di conservazione e invecchiamento, rendendo inutile l’uso della mistura. Anche in questo caso, come per il Parmesan, il nuovo Parmigiano conobbe un successo inarrestabile non solo sul mercato interno, ma su tutti i mercati mondiali, Stati Uniti compresi.

     Un’efficace politica di marketing, che ne esaltava la naturalità e la tradizione, oltre che gli indiscutibili valori nutrizionali e di gusto, ha fatto in poco tempo del Parmigiano e del Grana i due prodotti tipici italiani di maggior successo nel mondo.

      

E il Parmesan? Il povero Parmesan è una sorta di brutto anatroccolo al contrario: all’inizio era uguale a tutti i suoi fratelli, poi lui non è cambiato e gli altri sì. Gli è rimasto il gusto antico e un nome troppo ingombrante, che gli ha procurato tanti nemici in Italia; ma se vogliamo mangiare il Parmigiano dei nostri nonni dobbiamo andare nel Wisconsin, non certo a Parma.

 Buona lettura,

Vincenzo