Django Reinhardt, le tre dita magiche del jazz


Quello che oggi è buono per sonorizzare qualche spot televisivo patinato, un tempo fu avanguardia.

Non solo rivoluzione musicale, ma anche d’immagine: con la sua eleganza, il suo stile, la sua smorfia Django Reinhardt incarna per primo il ruolo dell’extracomunitario integrato nello show business, il primo europeo a mettere in scacco la supremazia americana del jazz degli albori.

Baffi intagliati, mascella volitiva, pelle d’oliva, sempre in silenzio: Django Reinhardt, lo zingaro, il giocatore d’azzardo, il genio dello swing è morto esattamente cinquant’anni fa, è stato il più grande chitarrista che il jazz abbia conosciuto.

Django era uno tzigano nato in qualche parte del belgio, di passaggio, con il carrozzone di famiglia: già nel 1910 si cercavano periferie di mondo abitabili, si transumava povertà, si medicava quella normalità che ancora il popolo Rom non ha, e forse non vuole.

Già a nove anni Django è un prodigio: suona il banjo, intrattiene le famiglie manouche (la stirpe tzigana direttamente imparentata con l’India) della piccola tribù paterna, non sa né leggere né scrivere, inizia a giocare a biliardo nelle bettole di Parigi.

Quella stessa Parigi che lo avrebbe consacrato e che negli anni Venti già esplodeva di suoni, il valzer, la musette, i primi fox trot, lo step, quella che Proust meravigliosamente pensava fosse “la deliziosa cattiva musica”.

Le orchestrine venivano pagate a balli: di solito con ventotto balli a sera riuscivi a sbarcare il lunario ed è questo uno dei primi ingaggi di un ragazzo introverso che la sera torna nella sua roulotte verso Porte de Choisy, con un gran bel banjo piantato sulla spalla.

Musicisti gloriosamente sconosciuti che, come molti ricordano, “non distinguevano un do diesis da un gilet di flanella” e  abitavano i bassifondi della musica.

Oggi non rimane nulla di queste balere perverse, di questi luoghi dai nomi antichi e mitici, carichi di un arcaismo sensuale: “Le rose blanche” di Port Clignancourt, o i venti locali uno di seguito all’altro di Rue de Lappe, posti dove balli, fai a schiaffi, tocchi le cosce.

E’ in questa atmosfera da Irma la dolce che Django suonava assieme al maestro Alexandre, virtuoso della binoiu, è così che chiamavano la fisarmonica.

Fino al 2 novembre 1928 tutto appare nella vita di Django assolutamente normale: una carriera da banjoista, un flirt appena iniziato con il jazz, quello bianco e immacolato delle prime grandi orchestre, una moglie, una roulotte dove tornare la notte, dopo il lavoro nei night. La chitarra, arrivata nel mondo del jazz solo sei anni prima, è ancora in un angolo di futuro.

Tutto è destinato a cambiare nel giro di venti minuti: la leggenda vuole che Django avesse dimenticato il banjo sul taxi, è tardi, ha sonno, il pastis è andato giù come brodo per tutta la sera, il vento  soffia dalla Goutte d’or implacabile come molti inverni parigini.

La roulotte e tutto il campo sono immersi nel sonno, Django, gentiluomo di un altro secolo, non vuole svegliare la moglie che già dorme ma inciampa sui fiori di celluloide, sveglia Bella, che accende quel che è rimasto del sego di una candela che cade deflagra sui fiori finti e  su una coperta con cui Django tenta di ripararsi: incendio, disastro, allucinazione notturna, un falò destinato a cambiargli la vita: La roulotte russa lascerà Bella senza capelli e Django con una mano inservibile per qualsiasi gesto musicale e non.

Resta  18 mesi in  ospedale e due dita della mano sinistra completamente atrofizzate, forse ancor peggio che mutilate, perché stanno lì e non servono a nulla, poco più sopra, sulla mano, il fuoco ha disegnato uno strano sole di pelle.

Django non può suonare più il banjo troppo pesante e ruvido, gli viene regalata una chitarra, ed ecco allora il miracolo medico che preannuncia quello metrico, quello del suo nuovo strumento per cui inventerà una tecnica tutta particolare.

Django è di nuovo sulle scene, è di nuovo “l’imperturbabile messicano” (la sua pelle scura portava a questo genere di fraintendimenti), ricomincia il suo pellegrinaggio nei locali questa volta con una nuova idea musicale in testa, nelle mani, o in quello che ne rimane.

Quella che grazie alla chitarra che suonava in maniera incredibilmente fluida gli permetteva di coniugare le sue origini tzigane con il jazz, con il violino di Stephane Grappelli, altro pitocco a cui la sorte riserverà la sorpresa della celebrità.

Dov’è la novità nella chitarra di Django e nel suo Hot Club de France, il gruppo che lo renderà celebre? E’ la leggerezza che i fracassi delle orchestrine non avevano, è la melodia che uno strumento afono come il banjo non poteva far esplodere, è una continua polluzione di note, la pulsazione che a colpi di polso Django imprime sul ritmo dei brani facili importati dall’America o dalle canzonette popolari francesi, fino a spingersi verso la musica classica, verso Debussy e Grieg: perché Django autodidatta, handicappato, analfabeta aveva un concetto sinfonico della sua chitarra, basta ascoltare come tratta un brano di Duke Ellington, da solo fa risuonare i bassi dell’orchestra, i fiati li nasconde fra le due dita che ancora riescono a sfiorare le corde.

Arriva la celebrità, arrivano i primi dischi, arriva persino la grande occasione americana, bruciata come le falangi di Reinhardt.

Spocchioso per natura, fiero e assolutamente impenetrabile, dalla tournée si aspettava molto di più.

Arrivò in ritardo nel tempio del Carnegie Hall e senza chitarra, convinto che i liutai U.S.A. avrebbero fatto a cazzotti pur di regalargliene una.

Ellignton gli lascia suonare solo una manciata di brani, il be bop, la nuova onda anomala del jazz avrebbe fagocitato anche Django che se ne torna in una Parigi appena liberata dai nazisti.

Ed è Parigi il luogo della consacrazione, ora niente più orchestrine ma jam session infuocate e Django che, con il suo modo di dardeggiare chi faceva una nota sbagliata, viene soprannominato “occhio nero”.

Anni d’oro quelli tra il ’46 ed il ’53: gli zazous, i forzati del jazz, vengono da ogni parte a sentirlo, Jean Cocteau scrive per lui, lo ritrae, ne celebra la regale bestialità. I suoi dischi, che siano quelli con il sottofondo dei bombardamenti dentro uno scantinato di Bruxelles, o quelli di Roma pre-dolce vita del night club Rupe Tarpea, lo consacrano come re del virtuosismo chitarristico.

Ma da despota distratto e da vero genio Django pian piano inizia a farsi da parte, nelle sue rare interviste dichiara “basta parlare di musica”, ora è il momento di una nuova passione: la pittura, descrittiva e naif, che lo accompagnerà fino alla morte, che lo coglie a soli quarantatrè anni per un’emorragia cerebrale.

Il suo graffio sulla chitarra, quella sua aria da Buscaglione zingaro hanno lasciato un’incredibile eredità: emuli, discepoli, pretendenti ancora non si capacitano: loro le dita le hanno tutte e dieci, peccato manchi quella incredibile spontaneità, quel piglio regale, come di uno strano visir indiano, capitato per caso dietro una chitarra.

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