L’orto di un perdigiorno


Di seguito uno stralcio del libro “L’orto di un perdigiorno. Confessioni di un apprendista ortolano” di Pia Pera, che ho trovato molto simpatico e istruttivo e che vi consiglio. 

Nonostante l’inesperienza, l’ozio, il temporeggiare davanti ai divoratori di piante e di frutti la storia sarà a lieto fine, perché alla fine l’orto, la Madre Terra, un po’ di ingenuità te la perdonano sempre e ti regalano comunque più cibo di quello che ti serve in realtà, tanto da doverne mettere via in conserve, marmellate o essiccato. 

Anche se le descrizioni dettagliate delle piante non mancano, questo libro non è un vero e proprio manuale di orticoltura, ma è più un manuale di coltivazione dell’anima, un ritorno alle origini dell’uomo, una descrizione di come potrebbe essere la vita, se si volesse affrontare un primo sacrificio di “decrescere”, in modo consapevole e felice.

 

Vivo in questo podere da un po’. Ho ristrutturato la casa colonica a vantaggio della parte abitativa. La cantina è diventata una sala, la rimessa una cucina, il fienile il mio studio.

Ho restaurato il forno, lo accendo ogni tanto per preparare pizze, pani, torte di verdura, arrosti. La terra intorno non aveva quasi più nulla del podere. Prima del mio arrivo alcuni campi erano stati venduti, la vigna divelta, il grande noce abbattuto.

Il mio pensiero è stato, prima ancora di venire ad abitarci, quello di piantare degli alberi. Gli alberi sono lenti, volevo guadagnare tempo.

Forse è stato un errore: adesso pianterei sì alberi, ma soprattutto da frutta. Il fatto è che a questo podere sono arrivata sotto la spinta di una suggestione confusa.

Lo volevo, ma non sapevo bene a che scopo. A vederlo rovinare mi si stringeva il cuore. Non avevo però considerato che la casa, e soprattutto la terra, avrebbero trasformato la mia vita decidendo loro al mio posto. Mi avrebbero lentamente allontanata dalla vita di città.

Dapprima la consapevolezza di non avere nessuna esperienza di giardinaggio mi bloccava, non sapevo nulla né di stili né di coltivazioni in generale, avevo bisogno mi si dicesse tutto. Perfino l’idea di mettere a dimora mi intimoriva: avrei saputo farlo nel modo giusto? Nel punto giusto? E le distanze? Avevo bisogno di consigli anche per le questioni più ovvie.

Di una cosa ero sicura: non volevo un giardino bisognoso di innaffiature continue. Lo volevo capace di fare quasi a meno di acqua.

Niente prato all’inglese, e nelle bordure essenze capaci, col tempo, di rendersi autonome: lavande, euforbie, Perovskia atriplicifolia, Stachys lanata, santoline, rosmarini, salvie, artemisie, cinerarie, cisti, valeriana selvatica, e poi tutta una serie di graminacee o erbe ornamentali.

E per le distanze di piantagione in piena terra? È venuto un amico, Paul.

Ha disposto per me le piantine, spiegandomi che il primo anno la bordura avrebbe avuto un’aria assai spelacchiata, ma col tempo le zone vuote si sarebbero riempite; intanto avrei avuto un bel daffare a strappare le infestanti che avrebbero colonizzato i punti in cui il terreno era scoperto.

Adesso fatico a credere che solo pochi anni fa ero così analfabeta, ma è la verità. La mia unica esperienza di giardinaggio era stata quella dei vasi sui davanzali o sulle terrazze delle case di città.

La terra aperta si presentava come una grande incognita. Non bisogna mai dimenticare che c’è sempre un momento in cui nemmeno le cose più semplici sono ovvie.

Quel primo giardino è stato la mia scuola elementare. Ha richiesto molto lavoro: scavare buche, piantare alberi e arbusti, tenerli liberi dalle erbacce, innaffiare, intervenire a volte in caso di malattia.

Ultimato l’impianto di base, la fatica ha preso a scemare, i lavori di manutenzione si sono fatti sporadici, tanto più che rinunciare a un ordine perfetto non è stato difficile.

Trovo più appagante quel non so che caratteristico dei giardini tenuti con una certa trascuratezza.

Non così l’orto: richiede molto di più, una conoscenza approfondita delle piante, delle loro esigenze. Lavoro e attenzione in cambio di cibo ed energia.

 

Nei primi anni non ho nemmeno provato a tenere un orto, spaventata dagli ammonimenti del muratore, dell’idraulico, del falegname che non facevano che ripetermi «l’orto vuole l’uomo morto».

Mi limitavo a piantare qualche ortaggio nelle aiuole recintate di bosso.

Questi ortaggi, pochi e in spazio piccolo, mi hanno dato molta soddisfazione.

 

È una coccola, per chi volesse sentire il profumo dell’erba bagnata, del rosmarino in fiore e del terriccio brulicante di lombrichi, senza nemmeno dover scendere dal divano.

Ma se da questo libro avrete le nostre stesse emozioni nel leggerlo, le mani nel terriccio vi verrà voglia di mettercele davvero, anche fosse solo per piantare qualche aromatica nel vostro terrazzo.

Buona lettura

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