Sarà poi vero che l’orto fa bene?


Una giornata di irrequietezza, sono nervosa e distratta, non riesco a concentrarmi su nulla. Nemmeno so cosa voglio. Mi sento scontenta. Quasi non so cosa ci faccio, al mondo.

Prendo la via dell’orto.

Questo vuol dire: legarsi alla cintola il fodero con le cesoie, attraversare il giardino, strada facendo tagliare un rametto secco, già che ci sono passare dal frutteto a vedere se le more di gelso sono mature. Sì, le prime: belle nere, così sugose che quando le stacco per mettermele in bocca mi tingono le dita.

Già solo a mangiare le more mi sono scordata del mio malumore. Quando arrivo nell’orto non so più nemmeno perché ci sono venuta. Mi guardo intorno. Uh, i pomodori sono cresciuti, vanno legati alla canna sennò col vento si spezzano, e poi diventano tutti un intrico. Le zucchine hanno sete. Il basilico va cimato, magari ci faccio un pesto.

Traffico tra le piante e loro mi dicono perché sono qui: hai noi da accudire. Prenditi cura di noi, ricambieremo con un invito a pranzo. Ti daremo il meglio di noi.

È già qualcosa. Non sarà ancora del tutto chiaro, cosa ci faccio al mondo, ma almeno da questo suo frammento, una risposta incoraggiante mi arriva. Mi sento meno sgomenta.

Bello, il semplice essere qui. Come sarebbe triste, non esserci affatto

Torno in casa col cestino pieno di cose buone. Il vento ha soffiato via le nubi, vedo l’azzurro del cielo.

Cosa mai sarà successo? Qui dovremmo interrogare le scienze cognitive. E io, solo a sentire pronunciare le due parole – scienza e cognitivo – mi sento prendere dal panico. Ho amiche dottissime che di questo sono esperte. Quando loro parlano, io mi accorgo di capire molto poco. Peggio ancora: mi faccio un’idea, a volte ho la sensazione di capire. Non è questa la strada maestra dell’ignoranza?

Una mia congettura di cosa avvenga, tuttavia, c’è. Credo intanto che sia sempre molto saggio non prendere le cose di petto. Un malumore a volte è meglio affrontarlo per vie traverse. Conosco un marito il quale sostiene che quando sorge un problema di coppia, la cosa migliore è non parlarne. Sua moglie non sempre è entusiasta di questo approccio, è anche vero che loro due sono tra i pochi rimasti insieme per quasi mezzo secolo senza mai separarsi. Lui dice che a cercare di sviscerare i problemi con le parole, i discorsi, le interpretazioni, si ottiene soltanto di esacerbarli. Ci si caccia in una ragnatela di parole da cui non si sa più come venire fuori.

Uscire da uno stato d’animo difficile uscendo, letteralmente, da dove ci troviamo: credo sia uno dei tanti casi in cui il corpo aiuta la mente.

Si chiama rilassamento, con un termine che mi piace poco perché mi annoia quasi quanto il suo equivalente inglese: relax. Quanto mi secca dovere riconoscere che si tratta in sostanza di questo! Una contrazione nella mente si allenta praticando una qualche attività fisica, che sia un esercizio di yoga, due passi in giardino, qualche ora in falegnameria, la preparazione di una torta, trafficare tra le piante dell’orto, abbracciare qualcuno che amiamo, andare a spasso col cane oppure stare con le sensazioni del corpo durante la meditazione.

Il ritorno al corpo aiuta a prendere le distanze dalla mente. Costringe la mente a darsi meno importanza. La spinge in secondo piano, impedendole di tormentarci con i suoi problemi non necessariamente falsi, ma comunque ingigantiti. Tornare al corpo è un modo molto efficace di privare la mente della sua pretesa centralità
Quando le nostre uniche attività sono mentali, rischiamo di affogare in un mare di irrealtà. Perché spesso, come si dice, è tutto nella testa! Cosa potrebbe essere più saggio, allora, di reagire a un bombardamento mentale con un fuoco d’artificio di sensazioni fisiche?

All’aperto, in un giardino esuberante, troveremo un antidoto in grado di disintossicarci agendo in simultanea sull’intera gamma delle sensazioni; e non sulla sola vista, il più mentale e astratto dei sensi. Certo, la prima impressione sarà probabilmente visiva, magari abbastanza intensa da disperdere ogni ubbia. Perché l’armonia di un paesaggio, la bellezza di un fiore, un contrappunto di verdi declinati in innumerevoli sfumature, sono già qualcosa di delizioso. Se a tutto questo aggiungiamo una fragranza talmente squisita da farci chiudere gli occhi per meglio assaporarla, la musica del vento tra canne di bambù, il fragore gentile dei lupini secchi quando passiamo loro accanto, il fruscio delle foglie che si sgretolano sotto i nostri passi… non dovrebbe bastare per catturare la nostra attenzione?

Se poi ci mettiamo a fare qualcosa, eccoci totalmente assorbiti. Ci sono le albicocche da cogliere, una almeno l’assaggeremo. Che buona, così succosa e saporita! E quelle pesche dalla buccia tanto vellutata? E poi, non è stupendo poter godere immediatamente del frutto di un’azione? Lavorando in giardino, si rafforza in modo molto rasserenante la connessione tra azione e risultato. Questo è assai gratificante, credo sia l’esatto contrario della depressione, quel misero stato in cui si ha l’impressione che nessuna nostra iniziativa approderà mai a qualcosa di bello e piacevole.

Che fare? Ormai il malumore si fatica perfino a ricordarlo. Tra le piante, si prova la sensazione di avere trovato con estrema facilità il nostro posto al mondo. Di trovarci esattamente dove dovremmo essere.

Che questo avvenga semplicemente per la più primordiale delle complementarità, quella tra animale e pianta? Tra creature specularmente opposte, che si nutrono l’una del respiro dell’altra?

Non saprei. Ma l’importante è questo: funziona.

Tratto da "Giardino & orto terapia" di Pia Pera

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